.

.

La Vera Vite

Spirito Santo

Spirito Santo
vieni...

Corpus Domini

Corpus Domini

Nel Corpo e nel Sangue di Gesù

Ciascun uomo possa "sentire e gustare" la presenza di Gesù e Maria, SS. Madre della Pentecoste, nella propria vita, in ogni attimo della propria giornata.



Nello Splendore della Resurrezione del Signore l'uomo trovi la sua vera dimensione e riesca ad esprimerla con Amore e Carità. Un abbraccio Michy


Maria SS. di Montevergine

Maria SS. di Montevergine
Maria SS. di Montevergine

Ti seguitò Signore - Mons.Mario Frisina

mercoledì 31 agosto 2011

Mercoledì della XXII settimana del Tempo Ordinario

 È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato.


In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva.
Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano anche demòni, gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo.
Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. Egli però disse loro: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato».
E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea. Lc 4,38-44

/

Dalla sinagoga – casa della preghiera e della lettura dei libri santi – la scena si trasferisce nella casa di Simone dove si compie ancora una guarigione: somiglia anche questa ad un esorcismo, poiché Gesù tratta la febbre come una forza ostile e le ordina di andar via. Al tramonto del sole, terminato il riposo del sabato, la scena si ripete, perché la gente porta da Gesù molti infermi. Egli li guarisce e da molti di loro scaccia i demoni. Appare il mistero di Gesù medico. L’uomo appena uscito dalle mani di Dio era integro; la sua condizione, però, era mutata in peggio con l’ingresso del peccato. Ora, l’opera di guarigione da parte di Gesù  comincia a ristabilire la condizione originale. Mentre la malattia retrocede e i demoni fuggono cresce un mondo nuovo. Per questa ragione Gesù rifiuta di fermarsi e di circoscrivere la sua opera di salvezza in un luogo. La missione che il Padre gli ha affidato è ben più ampia di una città: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città…». L’amore di Dio non è fatto per rimanere dentro i confini, ma per superarli e salvare tutti raggiungendo i confini della terra.
dal Giornale "A Sua Immagine"

martedì 30 agosto 2011

Martedì della XXII Settimana del Tempo Ordinario

 Io so chi tu sei: il santo di Dio!

In quel tempo, Gesù scese a Cafàrnao, città della Galilea, e in giorno di sabato insegnava alla gente. Erano stupiti del suo insegnamento perché la sua parola aveva autorità.
Nella sinagoga c’era un uomo che era posseduto da un demonio impuro; cominciò a gridare forte: «Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!».
Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male.
Tutti furono presi da timore e si dicevano l’un l’altro: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?». E la sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione circostante. Lc 4,31-37

/

«La sua parola aveva autorità»; ugualmente si dice delle azioni di Gesù. La forma tradizionale dell’insegnamento dei rabbini era quella di riferirsi all’autorità del maestro, della tradizione. Gesù parla diversamente, non cerca di appoggiarsi all’autorità di nessuno. Attinge da se stesso; meglio, parla con un’autorità che viene da Dio e quindi ha il diritto di esigere. C’è un’energia, nella parola di Gesù, che è irresistibile. La stessa cacciata dello spirito impuro desta meraviglia non per il fatto in sé, quanto per la forza della parola che l’ordina. È una parola efficace,che realizza quello che dice. Se ci domandiamo cosa vi sia alla base di tanta autorevolezza, possiamo senz’altro rispondere che c’è la comunione intima di Gesù col Padre. Egli è la parola di Dio, che proclama; perciò durante la sua esistenza terrena Gesù pone tutto se stesso nelle mani del Padre.
Questo è di stimolo a tutti noi per ritrovare una parola che abbia l’autorità che nasce dall’aver posto in tutto e per tutto la nostra vita nelle mani del Signore. Ed ancora: per parlare con autorità bisogna saper anche tenere insieme verità e speranza,  perché la verità senza speranza è solo cinismo, mentre la speranza senza verità è solo fantasia.

dal Giornale "A Sua Immagine"

lunedì 29 agosto 2011

Lunedì della XXII Settimana del Tempo Ordinario - Martirio di San Giovanni Battista

Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista.

In quel tempo, Erode aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.
Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto.
E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro. Mc 6,17-29

/

Sono molte le passioni umane che sialleano e complottano per la morte di Giovanni. Erodiade, anzitutto, che è la diretta minacciata dalla predicazionedel Battista: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». Ella sivede, così, rinfacciato tanto il tradimento del marito quanto l’unione incestuosa col re; ma, soprattutto, il suo potere è messo a rischio, perché Erode ascoltava volentieri Giovanni e aveva verso di lui una paradossale attrazione. C’è poi la giovane figlia di Erodiade: ella non ha nome, perché tutta definita dalla complicità con la madre e da quel potere che lo affascina e che vuole sedurre con la sua danza lasciva. Danzare durante un banchetto era tipico delle prostitute.
Infine c’è Erode, tirato verso ogni parte da queste due donne, ma certamente non loro vittima. «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò», egli dice. Si attribuisce, perciò, la possibilità di esaudire qualsiasi richiesta, al di là di ogni criterio etico: il potere gli ha
tolto il senso della misura. Tutti e tre questi poteri si alleano ed è così che Giovanni Battista muore, come Gesù, vittima delle umane passioni. Precursore del Salvatore, nella vita e nella morte.

da Giornale "A Sua Immagine"

domenica 28 agosto 2011

XXII Domenica del Tempo ordinario - S. Agostino


Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso.
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.
Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.
Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?
Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».Mt 16,21-27

/

Lo scandalo dell'amore disarmato

Gesù incominciò a dire che doveva molto soffrire e venire ucciso!
Questo è lo scandalo del cristianesimo, un Dio che entra nel dolore e nella morte perché nel dolore e nella morte entra ogni suo figlio.
È la sorpresa di Pietro: Dio non voglia, questo mai! Tu vuoi salvare questo mondo che ha problemi immensi, lasciandoti uccidere? Sei un illuso, il mondo non sarà salvo per un crocifisso in più. Usa altri mezzi: il potere, il miracolo, l'autorità. Ed è proprio questo che Gesù rifiuta. Sceglie invece i mezzi più poveri: l'amore disarmato, il cuore limpido, il non fare violenza mai, il perdono fino alla fine, l'abbraccio al lebbroso.
Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Se uno vuol venire... Ma perché dovrei voler questo? Qual è la molla? Lo rivela Gesù stesso poco oltre: se uno vuol salvare la propria vita... L'energia della sequela è un istinto di vita, bello e originario.
Rinneghi se stesso. Parole pericolose se capite male. Rinnegarsi non significa annullarsi, diventare sbiadito e incolore. Gesù non vuole dei frustrati al suo seguito, ma gente che ha fruttificato appieno i suoi talenti. Vuol dire: non sei tu il centro dell'universo, non sei tu la misura del tutto. Sei dentro una forza più grande. Il tuo segreto è oltre te.
Prenda la sua croce. E l'abbiamo interpretato come: soffri con pazienza, accetta, sopporta. Una esortazione alla rassegnazione. Ma non occorreva certo Gesù per dire questo. La croce nel Vangelo è l'impensabile di Dio, è la prova che Dio ama me più della propria vita.
Per capire basta sostituire la parola Croce con la parola amore: «Se qualcuno vuole venire con me, prenda su di sé tutto l'amore di cui è capace». Prendi la tua porzione di amore, altrimenti non vivi; prendi la porzione di croce che ogni amore comporta, altrimenti non ami. Tutti, io per primo, abbiamo paura del dolore. Ci sia concessa, però, la grazia di non aver paura di amare: sarebbe paura di vivere.

E poi seguimi. Seguire Cristo non è macerarsi in sacrifici ma conquistare un'infinita passione per l'esistenza, in tutte le sue forme, in tutte le sue creature. «Fai come me, prendi su di te una vita che sia il riassunto della mia vita» dice Gesù, il coraggioso che tocca i lebbrosi e sfida chi vuole uccidere l'adultera, il tenero che si commuove per le folle senza pastore e per due passeri, il povero che mai è entrato nei palazzi dei potenti se non da prigioniero, libero come nessuno, amore come nessuno, uomo dalla vita buona, bella, felice. Vivi le mie stesse passioni. E troverai la vita. Dimentica che esisti quando dici che ami ( J. Twarkowski) e troverai la vita. (p. Ermes Ronchi).



sabato 27 agosto 2011

Sabato della XXI settimana del Tempo Ordinario - Santa Monica

Sei stato fedele nel poco, prendi parte alla gioia del tuo padrone.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”». Mt 25,14-30

/

Ancora un binomio: operosità e pigrizia. I «talenti» non sono per nulla le capacità naturali insite in ciascuno di noi, ma la missione che il Signore affida a ciascuno.
Per questo sono chiamati «servo buono e fedele» quelli che hanno corrisposto alle attese del padrone; l’ultimo, invece, è «malvagio e pigro». Un segno di questo vizio –la pigrizia – è quello di lamentarsi sempre degli altri, come fa il servo del suo padrone. Questi, alla fine, risulta la figura di Dio ed è dunque sul corretto rapporto con Dio chela parabola intende ammaestrarci. L’ultimo servo è rimasto bloccato in una concezione servile e mercantile di Dio e perciò recrimina a priori contro di lui. Gli altri due ne hanno compreso il cuore, che agisce nel segno del restituire senza calcoli. Un’altra cosa vuole dirci la parabola ed è che «conservare» non significa affatto lasciare le cose come stanno e non cambiarle, ma trasformarle facendole fruttificare.
Lasciare inalterato qualcosa – anche quando si tratta di valori religiosi – vuol dire mummificarla. Importa, al contrario, farla vivere e crescere. Il di più non arricchisce il Signore. Egli non lo richiede per sé, ma perché il servo fedele si ritrovi nella pienezza della gioia.
dal  Giornale "A Sua Immagine"

venerdì 26 agosto 2011

Venerdì della XXI Settimana del Tempo Ordinario

 Ecco lo sposo! Andategli incontro!

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora». Mt 25,1-13

/

Saggezza e stoltezza: un altro binomio, un’altra antinomia. La parabola ci mette sin dal principio sull’avviso. I due termini sono già stati usati dall’evangelista. In Matteo 7,24-27 ci sono due costruttori che edificano l’uno sulla roccia (il saggio) e l’altro sulla sabbia (lo stolto). Lì dunque si tratta di fondare la propria vita sull’ascolto e la pratica della Parola del Signore, oppure sull’ascoltare e non fare. In questa parabola la sapienza consiste nella previsione: l’incontro conlo Sposo dev’essere preparato in anticipo. Non è qualcosa cui si possa rimediare all’ultimo momento:sono furbizie che non servono.
Essere discepoli di Gesù, insomma, non ci si improvvisa. Occorre, al contrario, una virtù solida, capace di non lasciarsi sopraffare dal sonno e sorprendere dalla stanchezza. C’è sempre un «momento opportuno» nella vita di un cristiano e allora o si è pronti, o non lo si è. Il ritardo di Dio lo si deve mettere in conto, ma non è lecito farvi dei calcoli.
Non è la lontananza, o la vicinanza temporale dell’ultima venuta del Signore che impreziosisce un tempo, ma il fatto che in ogni tempo Egli può arrivare. La vera questione è sapere o non sapere aspettare.

dal Giornale "a Sua Immagine"

giovedì 25 agosto 2011

Giovedì della XXI Settimana del Tempo Ordinario

 Tenetevi pronti.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo.
Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così! Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni.
Ma se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda”, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti».

/

Servo fidato, o malvagio? È l’antitesi che ci presenta la pagina deVangelo. La parabola non immagina due servi, dalle opposte caratteristiche ma descrive un solo personaggio davanti al quale si prospettano due comportamenti opposti. «Ma se quel servo….». La fedeltà e l’infedeltà non appartengono necessariamente a due diverse persone, ma sono una realepossibilità per ogni uomo. Ciascuno di noi deve scegliere ogni giorno e vivere nella fedeltà, o nell’infedeltà. Singolare è il fatto che la parabola non si sofferma a descrivere le ragioni per le quali il servo potrà essere premiato. Su questo, il racconto rimane nel generico. Più dettagliato, al contrario, è l’agire malvagio che merita la punizione.
Essere cattivo vuol dire trattare male gli altri e vivere da dissipato.
All’origine di questo comportamento malvagio c’è la caduta dell’attesa.Spadroneggiare sugli altri, spassarsela e vivere senza sospetti: questo significa non essere più vigilanti, come ai tempi di Noè in cui si mangiava e beveva senza accorgersi dell’imminenza del diluvio. L’abbrutimento morale di questo servo è la conseguenza pratica di tale dimenticanza. La punizione è drammatica: sarà radiato dalla comunione col suo padrone e messo insieme ai simulatori. Conseguenza sarà la rabbia eterna: «pianto e stridore di denti».
dal Giornale " A Sua Immagine"

mercoledì 24 agosto 2011

Mercoledì della XXI settimana del Tempo Ordinario - S. Bartolomeo

 Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità.

In quel tempo, Filippo trovò Natanaèle e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret». Natanaèle gli disse: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi».
Gesù intanto, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!».
Poi gli disse: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo». Gv 1,45-51

/

Nella festa dell’apostolo San Bartolomeo, il racconto evangelico ci narra la sua vocazione. Egli, infatti, è identificato con Natanaele, l’«israelita in cui non c’è falsità» elogiato da Gesù.
Di caratteristico in questa storia vocazionale c’è la trasmissione da un discepolo all’altro della sequela di Gesù. Filippo ha incontrato Gesù e questa esperienza lo ha totalmente preso, lo ha convinto, lo ha entusiasmato. La gioia dell’incontro con Gesù diventa un impulso interiore a trasmettere, a fare desiderare una partecipazione a tale scoperta. «Vieni e vedi»: riconosciamo qui la logica veritativa, cui risponde la fede. È una logica che tiene insieme il conoscere (vedi) e la libertà del soggetto (vieni). Questa è esattamente oppostaa quella empiristica oggi dominante.
Non vedere e poi venire, ma il contrario: venire e quindi vedere!
Nell’esperienza dello stare con Gesù, il discepolo acquista la vera conoscenza di Lui. Il racconto si chiude con l’immagine della mistica scala su cui salgono e scendono gli
angeli. Il Signore chiama per mettere gli uomini in relazione con Dio e per rivelare il suo mistero personale nel quale si compie la condiscendenza di Dio verso gli uomini.
Il centro e il senso di questa relazione dell’uomo con Dio è Gesù.

dal Giornale "A sua Immagine"

martedì 23 agosto 2011

Martedì della XXI Settimana del Tempo Ordinario


Queste erano le cose da fare, senza tralasciare quelle.

In quel tempo, Gesù parlò dicendo:
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito!». Mt 23,23-26

/

L’intero brano evangelico è articolato sull’antitesi esterno/interno, apparenza/verità. Il
nome da dare a tutto questo è ipocrisia. Tra i vizi, è quello più riprovato  ed esplicitamente condannato da Gesù. L’ipocrisia è fondamentalmente simulazione di buone qualità che invece non si posseggono e perciò è peccato: contro la verità, spiegavasan Tommaso d’Aquino.
Ciò che conta, per l’ipocrita, è l’esterno. Si tratta, dunque, di una contraffazione, alla cui radice c’è la superbia, una volontà orgogliosa e vanitosa. Nulla, perciò, di più antievangelico.
C’è un altro aspetto che il Vangelo mette in luce, cioè un’attenzione alle minuzie e ai dettagli esterni, che è cosa buona soltanto se è espressione di una conversione interiore ed è collegata alle grandi ispirazioni evangeliche, che sono la giustizia, la misericordia, la fedeltà. Diversamente, sono anch’essefrutto di orgoglio, di disprezzodegli altri. Espressione anch’esse di ipocrisia, insomma. Leggendo queste vere e proprie invettive di Gesù (guai) le metteremo in parallelo con Matteo 6 dove Gesù chiede a noi di non fare come gli ipocriti, perché il Padre vede nel segreto. Più avanti, in Matteo7,1-5 Gesù chiama ipocrita anche chi pretende dagli altri quel che lui non vuol fare.

dal Giornale "A Sua Immagine"

lunedì 22 agosto 2011

Lunedì della XXI Settimana del Tempo Ordinario - Beata Vergine Maria Regina

Guai a voi, guide cieche.

In quel tempo, Gesù parlò dicendo:
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo prosèlito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geènna due volte più di voi.
Guai a voi, guide cieche, che dite: “Se uno giura per il tempio, non conta nulla; se invece uno giura per l’oro del tempio, resta obbligato”. Stolti e ciechi! Che cosa è più grande: l’oro o il tempio che rende sacro l’oro? E dite ancora: “Se uno giura per l’altare, non conta nulla; se invece uno giura per l’offerta che vi sta sopra, resta obbligato”. Ciechi! Che cosa è più grande: l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta? Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che lo abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso». Mt 23,13-22

/

Nel racconto dell’Annunciazione Maria ci appare anzitutto come la povera del Signore. Siamo colpiti dal contrasto fra la solennità dell’invio di un messaggero di Dio e l’oscurità dello sfondo dato da una contrada periferica della Galilea. Si esalta così l’iniziativa della grazia di Dio che irrompe nella vita di una creatura e trasforma in ricchezza la sua povertà. Si giustifica, così, il primo motivo del Magnificat:
«Ha guardato l’umiltà della suaserva» (Lc 1,47).
La condizione verginale della fanciulla di Nazaret è allara dice di questa umiltà e manifesta la sua attitudine in tutto accogliente di fronte a Dio. Ella è chiamata ad essere la Madre vergine del Re Messia. Il Bambino che nascerà dalla Vergine è generato dall’Alto per opera dello Spirito Santo ed è, perciò, Figlio di Dio. Su tale sfondo la Vergine appare come l’eccelsa Madre del Re Signore, (Gebîrah), della stirpe di Davide secondo la carne, costituito glorioso Figlio di Dio con potenza nella sua risurrezione (cfr Rm 1,3-4). La Pasqua del Signore giustifica anche la dignità regale della Madre del Signore.
«Poiché la vergine Maria fu esaltata ad essere la Madre del Re dei re, con giusta ragione la chiesa l'onora col titolo di Regina» (Sant’Alfonso).

 
dal Giornale "A Sua Immagine"
   

domenica 21 agosto 2011

XXI Domenica del Tempo Ordinario (anno A)

Tu sei Pietro, e a te darò le chiavi del regno dei cieli.

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo. Mt 16,13-20

/

La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?
La risposta bella e al tempo stesso sbagliata: dicono che sei un profeta, voce di Dio e suo respiro.
Gesù pone la seconda domanda, preceduta da un ma: Ma voi ? come se i Dodici fossero di un altro mondo, mai omologati al pensiero dominante ? voi chi dite che io sia? La terza domanda implicita, diretta a me: tu chi dici che io sia?
Gesù non chiede: Cosa avete imparato? Che parola vi ha colpito? Qual è il centro del mio insegnamento? Ma: chi sono io per te? Tu con il tuo cuore, con la tua fatica, la tua gioia e il tuo peccato, tu cosa dici di Gesù Cristo?
Le parole più vere sono sempre al singolare, e mai parole d'altri. Non servono libri o catechismi, non studi, letture, o risposte imparate, ma ciascuno dissetato alle fonti di Dio, inciso un giorno dalla spada a due tagli della sua Parola, ciascuno, caduto e risorto, può dare la sua risposta.
Tu sei per me un'crocifisso amore'. L'amore ha scritto il suo racconto sul tuo corpo con
l'alfabeto delle ferite, indelebili come l'amore.
Tu sei per me un 'disarmato amore', che mai sei entrato nei palazzi dei re, mai hai radunato eserciti, e in questo mondo di arroganti hai detto: Beatii miti, gli inermi, i tessitori di pace.
Tu sei per me un'inseparato amore', perché nulla mai, né angeli né demoni, né cielo né
abisso, nulla mai ci separerà dal tuo amore di Dio (cf. Rm 8, 39). Nulla, mai. Due parole assolute, perfette, totali: inseparabile sono dall'amore.
I due simboli di oggi sono la chiave e la roccia. Pietro è roccia nella misura in cui ancora trasmette Cristo, tesoro per l'intera umanità. E' roccia nella misura in cui mostra che Dio è vivo fra noi, crocifisso amore, disarmato amore, inseparato amore.
Ma ogni discepolo è roccia e chiave. Chiave che apre le porte belle di Dio, roccia su cui far conto per costruire la casa comune. Chiamato a legare e sciogliere, a creare nel mondo strutture di riconciliazione.
Voi chi dite che io sia? Non mi basta dire Dio; Cristo non è ciò che dico di lui, ma ciò che vivo di lui, come la vita non sta nelle mie parole sulla vita, ma nel mio patirla:
Mi guardano negli occhi / e rimangono estatici / perché capiscono che io ti ho visto / ti ho sentito/ e che qualche volta almeno / ti ho anche tradito (Alda Merini). Non una dottrina, non una morale, il cristianesimo è una Persona, un dolcissimo sogno sempre tradito, ma di cui non ci è concesso stancarci. (p. Ermes Ronchi)


sabato 20 agosto 2011

Sabato della XX settimana del Tempo Ordinario - San Bernardo

 Dicono e non fanno.

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato». Mt 23,1-12

/

«Non agite secondo le loro opere».
L’ammonimento di Gesù mette in luce il grave pericolo che sorge nella comunità a motivo dell’incoerenza soprattutto di chi svolge compiti di guida e di responsabilità.
La contraddizione fra l’insegnare e il fare e ancora più grave di quella che sussiste tra il dire e il fare. «Dicono e non fanno»: vuol dire che nella vita cristiana non le parole,  contano, ma anzitutto i fatti. Ascoltiamo Sant’Ignazio di Antiochia: «È meglio tacere ed essere, che dire e non essere. È bello insegnare se chi parla opera. Uno solo è il maestro e ha detto e ha fatto e ciò che tacendo ha fatto è degno del Padre. Chi possiede veramente la parola di Gesù può avvertire anche il suo silenzio per essere perfetto, per compiere le cose di cui parla o di essere conosciuto per le cose che tace» (Lettera agli Efesini).
Un’altra tentazione che la parola del Signore denuncia è il desiderio di emergere e di distinguersi nella comunità, che contraddice alla fraternità di base che tutti congiunge. L’essere fratelli accomuna tutti, anche chi ha ilcompito di guidare, o di insegnare ecc. Chi, al contrario, fa dell’autorità un motivo di onore e di privilegio sarà umiliato da Dio.

dal Giornale "A Sua Immagine"

venerdì 19 agosto 2011

Venerdì della XX settimana del Tempo Ordinario

 Amerai il Signore tuo Dio, e il tuo prossimo come te stesso.

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Mt 22,34-40

/

La discussione sul «più grande comandamento» era un classico nel giudaismo. Gesù vi risponde rimandando al comando dello Shema (confronta Deuteronomio 6,5: l’amore di Dio) e del Levitico (19,18: l’amore del prossimo).
Questi due comandamenti Egli li dichiara simili e dice che essi sono i cardini della vita religiosa. È, dunque, proprio nella capacità di tenerli uniti che si misura la fede.
Molto bello è il commento di Sant’Agostino, mentre spiega la frase di Gesù: Il mio carico è leggero. «Accogliete questo carico, queste ali, e se avete cominciato ad averle,
fatele crescere. Queste ali raggiungano tanta capacità per cui possiate volare. Un’ala è: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente. Ma non rimanere attaccato a un’ala sola, poiché se credi di averne una, non hai neppure quella. Amerai il prossimo come te stesso. Poiché se non ami tuo fratello che vedi, come potrai amare Dio che non vedi? Aggiungi anche un'altra ala; in tal modo potrai volare… Se ti appoggerai a queste due ali avraiil tuo cuore in alto, affinchè il cuore, tenuto in alto, a suo tempo trascini in alto anche il tuo corpo» (Discorsi 68,13)

dal Giornale "A Sua Immagine"

Giovedì della XX settimana del Tempo Ordinario

 Tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole e disse:
«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.
Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.
Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti». Mt 22,1-14

/

«Come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?».
La parabola è tra  le più movimentate del Vangelo e ricche di sorprese e colpi di scena.
Il rifiuto e la noncuranza degli invitati alle nozze del figlio del re, la violenta reazione del re, la scriteriata e improvvisata convocazione di chiunque per riempire di commensali la sala delle nozze. Fin qui tutto potrebbe indurre a pensare ad una storia drammatica a lietofine, ma c’è l’ultimo colpo di scena:l’espulsione di uno, che è trovato senza l’abito appropriato per la cerimonia. La parabola dev’essere compresa avendo sullo sfondo il rifiuto del Vangelo da parte d’Israele e la conseguente chiamata rivolta a tutti gli altri. I loro sostituti, però, ossia i nuovi chiamati (la Chiesa) non possono illudersi scambiandola con una salvezza «a buon prezzo». Il Vangelo conserva intatta tutta la sua esigenza. I padri della Chiesa hanno riconosciuto nella veste bianca della parabola il vestito battesimale, ma non senza qualche importante precisazione. Osservava, ad esempio, sant’Agostino che non tutti quelli che hanno il battesimo arrivano a Dio. Qual è dunque l'abito di nozze? Èla carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera (confronta Discorsi 90,6).
dal Giornale "A Sua Immagine"

mercoledì 17 agosto 2011

Mercoledì della XIX settimana del Tempo Ordinario

 Sei invidioso perché io sono buono?

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”.
Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». Mt 20,1-16
/

«Gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». Sono state date molte spiegazioni, per rendere plausibile il comportamento di questo padrone che paga gli ultimi con la stessa moneta dei primi. Parla della chiamata, che Dio può rivolgere all’uomo in qualsiasi ora? Parla del giudizio al quale occorre essere sempre preparati? Ripropone il capovolgimento dei valori per chi entra nel Regno? Rendere, tuttavia, accettabile la parabola di Gesù significa toglierle tutto il vigore, ch’è proprio nel paradossale comportamento del padrone, che chiama ad ogni ora (anche quando per lavorare rimane solo poco tempo) e che remunera alla stessa maniera (secondo criteri umanamente discutibili). A ben vedere la risposta alle perplessità la indica la stessa parabola: «sei invidioso perché io sono buono?». Lo scandalo cristiano è qui: che non soltanto sia aperta la strada della salvezza per i buoni, ma che possa essere dischiusa anche per i peccatori; che, dunque, tutto non si risolva nel salvare i buoni e punire imalvagi; che anche per gli ultimi sia possibile un dono e un perdono.
I giusti non debbono essere invidiosi, ma rallegrarsi di fronte a un Padre che perdona i peccatori.
Qui, difatti, è il cuore del Vangelo: nella rivelazione dell’amore misericordioso del Padre.

dal Giornale "A Sua Immagine"
 

martedì 16 agosto 2011

Martedì della XX settimana del Tempo Ordinario

 È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: «Allora, chi può essere salvato?». Gesù li guardò e disse: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile».
Allora Pietro gli rispose: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi».

/


«Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli». La questione è stata posta sin dal principio. Il problema reale, tuttavia, non è quale sia il destino di chi è ricco, ma piuttosto quale pericolo significhi per l’uomo la ricchezza in ordine alla salvezza. Il detto proverbiale sul cammello e l’ago esprime la serietà del problema. I discepoli si sentono anche loro a rischio: «Allora, chi può esseresalvato?».
L’idea è che avendo a disposizione le ricchezze è possibile risolvere molti nodi della vita: cosa non si può fare col denaro? Non dice, forse, la Legge che i beni terreni sono un segno della benedizione del Signore (confronta il libro delDeuteronomio 28,1-14)? Ed allora cosa ne sarà dei poveri? La risposta di Gesù non condanna le ricchezze, ma dice chiaramente due cose. Anzitutto che il ricco non si salva perla sua ricchezza; in secondo luogo che la ricchezza diventa facilmente un gradino per la chiusura del cuore (confronta la 1ª lettera a Timoteo 6,17: «A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma inDio»). Il modo per entrare nella salvezza non sta nell’avere, ma nel distaccarse ne per donare e perseguire Gesù.
 
dal Giornale: a "A Sua Immagine"

lunedì 15 agosto 2011

Lunedì della XIX Settimana del Tempo Ordinario - Solennità di Maria Santisima Assunta

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua. Lc 1,39-56Sposa e via dell'Amore


/


 

"Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente" (Lc 1,49), proclamò l'Immacolata Madre di Dio sempre Vergine Maria (Munificentissimus Deus) quando ricevette il saluto di sua cugina Elisabetta. Le meraviglie compiute in lei da Dio, testimoniati dai titoli dogmatici attribuiti a lei, manifestano alla Chiesa il rapporto singolare che la Vergine Maria ha con il Figlio.
La solennità odierna afferma con vigore che in Maria di Nazaret risplende già ora la finale destinazione che appartiene ad ogni uomo: lei partecipa, in anima e corpo, alla gloria del Cielo e, al contempo, anticipa il compimento del progetto divino sulla creatura umana, attuato da Gesù per noi risorgendo dai morti e sconfiggendo il peccato. Maria Vergine, assunta in cielo, è la prova vivente che la dignità presente e futura dell'uomo redento da Cristo non risiede nelle rovine della morte, conseguenza della scelta del peccato, ma nella gloria del Dio Uno e Trino. Maria, in questo modo, è l'immagine di ciò che sarà la Chiesa (immagine escatologica). In Maria assunta, la Chiesa contempla ciò che essa spera di essere. Lei è l'immagine e la primizia della Chiesa, la certezza che i beni promessi sono stati realizzati.
Lei è il modello cui la Chiesa Sposa apprende per tendere alla santità ed essere profezia nella speranza. Maria è modello di santità per la Chiesa perché, nel dimostrarle l'esperienza dello Spirito, la rinvia al Figlio, cui ella si è pienamente plasmata. Qui la Chiesa imita Maria, percorre lo stesso itinerario spirituale: da lei la Chiesa conosce l'accoglienza pura, verginale, cioè il gusto della dimensione spirituale della vita; la gratuità materna, la carità, il servizio disinteressato verso i fratelli; infine, alla sua scuola si fa esperienza della speranza che anticipa i beni futuri. In Maria assunta la Chiesa riconosce di essere profezia della speranza nel mondo. Guardando a lei, la Chiesa è testimone dell'annuncio del Regno: contro tutto ciò che è contro Dio, il popolo della speranza testimonia che il futuro di Dio è unito con il presente dell'uomo. Icona della speranza, dell'avvenire promesso, Maria è l'immagine dell'uomo chiamato ad amare e a realizzarsi nella carità. Tale realizzazione avviene mediante la conversione, cioè il cambiamento del modo di pensare, di agire e di organizzare i rapporti fra gli uomini. Per mezzo di essa, l'uomo è immesso nel Regno di Dio, inaugurato dall'avvento del Figlio. Il Magnificat, dunque, canto della speranza, della gioia, perché Dio ha rivelato nella storia umana la Sua misericordia, si è inserito, cioè, nella realtà dei bisognosi d'amore e di perdono, diviene il segno rappresentativo della Chiesa: dallo stesso Spirito cui nasce Cristo nel seno della Madre, così nasce anche il cristiano nelle viscere della Chiesa. Rigenerati dallo Spirito, i cristiani sono animati dalla speranza. La speranza che Maria suggerisce alla Chiesa è anticipazione militante dell'avvenire promesso a noi dal Figlio; lei è l'immagine della speranza della Chiesa, del servizio che la Chiesa è chiamata a svolgere per la liberazione degli oppressi. Come Maria, anche la Chiesa deve annunciare che Dio libera i sofferenti, non rimane passivo di fronte alle ingiustizie che animano il mondo.
Cosa insegna, allora, Maria di Nazaret, assunta in cielo, all'uomo contemporaneo?
In quanto colmata dallo Spirito, Maria è il modello dell'uomo realizzato secondo la volontà e la grazia del Padre. Ciò significa che la creatura umana, espressa in Maria, è chiamata all'incontro, al dialogo con Dio. Nel dialogo o alleanza, Dio rivela l'uomo all'uomo in quanto fatto per Dio, e, quindi, convocato (chiamato) alla comunione fra di essi e con la vita divina. Questa totale reciprocità o donazione all'altro e a Dio, è realizzata in modo esemplare da Maria, Sposa della nuova Alleanza: il Magnificat è il dialogo straordinario della creatura con il Creatore, con il Figlio e con gli uomini. Ma, la tutta Santa non rivela all'uomo solo l'essere in dialogo della creatura; manifesta, altresì, la via cui questa vocazione deve essere realizzata: la via della santità, della reciprocità fra la Grazia donata liberamente e l'accoglienza vissuta gratuitamente. Maria è la figura esemplare della vita vissuta secondo lo Spirito, è il dialogo realizzato, è la pace dell'essere riconciliato con Dio: è, contemporaneamente, il si di Dio e il si dell'uomo.
Cari fratelli, nell'esistenza offerta (nel dialogo d'amore fra Dio che chiama e gli uomini) di Maria vi è il compimento del disegno di Dio sull'uomo: lei insegna che solo aprendosi allo Spirito, l'uomo annuncia con la sua carne la liberazione dalla morte. L'assunzione della Vergine rivela, infatti, la sua piena libertà: Maria, allora, non è solo immagine della Chiesa Sposa, ma, nella libertà dell'amore, è il segno della liberazione del mondo; il luogo vivente in cui l'uomo comprende la purezza, la luminosità di una vita dedicata a Dio. La gioia del suo Magnificat è il canto di liberazione nella speranza che vince ogni paura, perfino la morte.
Soltanto se accettiamo di vivere nella speranza, nella consapevolezza che i beni del mondo sono passeggeri, troveremo la capacità di comprendere cosa dà veramente gioia e pienezza alla nostra esistenza. Come Maria, apriamo i nostri cuori allo Spirito: rendiamo piena la nostra vita dell'esultanza di Dio. Amen. (Gaetano Salvati)

domenica 14 agosto 2011

XX Domenica del Tempo Ordinario (anno A)

Donna, grande è la tua fede!
In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele».
Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita. Mt 15,21-28
La grande fede della donna delle briciole
 

Gesù, uomo di incontri. Incontri che trasformano. E la svolta avviene attorno all'immagine dei cagnolini e delle briciole. Gesù dapprima si sottrae: Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini.
Nella mentalità comune dei giudei i pagani erano considerati cani. E poi la risposta geniale della madre Cananea: è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. La donna sembra dire «fai delle briciole di miracolo, briciole di guarigione anche per noi, gli ultimi». Qualcosa commuove Gesù e ne cambia l'atteggiamento: è la convinzione assoluta di quella donna che tutti, anche i pagani sono amati, che per Dio non esistono figli e no; è l'umiltà di chi va in cerca solo di briciole, di pane perduto.
Donna, grande è la tua fede!
Non frequenta la sinagoga, invoca altri dèi, Baal e Astarte, ma per Gesù è donna di grande fede. Non tanto o non solo per il suo indomito amore di madre, che non si arrende ai silenzi di Gesù, al suo atteggiamento prima gelido («non le rivolse nemmeno una parola») e poi ruvido. Lo farebbe qualsiasi madre! La grande fede della donna non sta in formule o dichiarazioni, ma in una convinzione profonda, che la incalza: Dio è più attento alla vita e al dolore dei suoi figli che non alla fede che professano.
Non ha la fede dei teologi, ma quella delle madri che soffrono per la carne della loro carne: esse conoscono Dio dal di dentro, lo sentono pulsare nel profondo delle loro piaghe, all'unisono con il loro cuore di madre. Credono che il diritto supremo davanti a Dio è dato dalla sofferenza e dal bisogno, non dalla razza o dalla religione. E che questo diritto appartiene a tutti i figli di Dio, che sono tutti uguali, giudei e fenici, credenti e pagani, sotto il cielo di Tiro o sotto quello di Nazaret. E Gesù cambia, si modificano l'ampiezza della sua missione e il volto del Padre. Una donna pagana «converte» Gesù; lo porta ad accogliere come figli i cagnolini di Tiro e di Sidone, lo apre ad una dimensione universale: No, tu non sei venuto solo per quelli di Israele, tu sei pastore del dolore del mondo. Gesù cammina e cresce nella fede, imparando qualcosa su Dio e sull'uomo dall'amore e dall'intelligenza di una madre straniera. Da questo incontro di frontiera, da un dialogo fra stranieri prima brusco e poi rasserenante, emerge un sogno: la terra vista come un'unica grande casa, una tavola ricca di pane, una corona di figli. Una casa dove nessuno, neppure i cuccioli, ha più fame. Dove non ci sono noi e gli altri, uomini e no, ma solo figli e fame da saziare. Dove ognuno, come Gesù, impara da ognuno. Sogno che abita Dio e ogni cuore buono. (omelia di p. Ermes Ronchi)




/

sabato 13 agosto 2011

Sabato della XIX settimana del Tempo Ordinario


Non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli.

In quel tempo, furono portati a Gesù dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li rimproverarono.
Gesù però disse: «Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli».
E, dopo avere imposto loro le mani, andò via di là. Mt 19,13-15


/


«A chi è come loro appartiene il regno dei cieli». Gesù aveva già detto che i misteri del regno il Padre sono stati rivelati ai piccoli(11,25). Ora spiega che il regno ègià loro. Sulle sue labbra la frase ha il sapore di una beatitudine. Non di una, anzi, ma di ogni beatitudine.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (5,3). 
Il povero in spirito pone interamente la sua fiducia in Dio, come un bambino nei suoi genitori; egli è colui che fa qualcosa gratuitamente, per la sola gioia di farlo come i bambini, che non giocano per vincere ma solo per giocare.
Il povero in spirito non sifida della sua bravura e della sua competenza, ma solo dell’amore di Dio. Come un bambino, appunto, che dai genitori si attende la risposta ad ogni suo perché. Il povero in spirito nella sua preghiera ripete sempre Abba; come un bambino, appunto. A noi che abbiamo la fretta di crescere e diventare adulti la parola di Gesù chiede di cambiare strada; anzi,d’invertire la rotta. Aveva dettoche i misteri del regno il Padre sono stati rivelati ai piccoli (11,25). Ora spiega che il regno ègià loro.

dal Giornale a "Sua Immagine"

venerdì 12 agosto 2011

Venerdì della XIX Settimana del Tempo Ordinario

Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così.
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?».
Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina e disse: “Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne”? Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?».
Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».
Gli dissero i suoi discepoli: «Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi».
Egli rispose loro: «Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca». Mt 19,3-12

/

«Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso». Di due cose parla Gesù: del matrimonio e del celibato.
Per l’uno e per l’altro egli disegna una possibilità nuova. Non rende l’uno più facile dell’altro, ma delinea per ambedue una prospettiva piena, più grande. Sposarsi significherà d’ora in avanti entrare nell’inizio voluto da Dio, quando creò l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza. Nell’amore coniugale deve trasparire il mistero di amore in cui Dio stesso eternamente vive. Non sposarsi, d’ora in avanti potrà essere espressione di una dedizione totale al regno dei cieli. Il regno dei cieli è il valore ultimo per il quale può valere la pena sia unirsi in matrimonio, sia rinunciarvi. Gli stessi discepoli dovranno seguire questo criterio.
È curioso il loro pensare che non sia più conveniente sposarsi, solo perché è preclusa la possibilità di ripudiare la moglie! Sia nel matrimonio, sia nel celibato ciò che conta è essere nella prospettiva del regno dei cieli. L’uno, o l’altra condizione è sempre qualcosa da capire; occorre pure, nella conversione della mente e del cuore, mettersi nella condizione giusta per farlo. Dicendo: «Chi può capire, capisca», Gesù apre al discepolo lo spazio della libertà.
dal Giornale a "Sua Immagine"

giovedì 11 agosto 2011

Giovedì della XIX Settimana del Tempo Ordinario - S. Chiara

 Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano.

/

«Il padrone ebbe compassione di quel servo…». Nel contesto del racconto evangelico, la parabola di Gesù non detta gli articoli di un codice civile; indica, piuttosto, le forme dell’agire in una Chiesa dove non tutto è perfetto, ma ci sono, al contrario, rivalità risentimenti e rivendicazioni. Molte cose sono paradossali nel racconto, a cominciare da quel settanta volte sette, che non appartiene alla nostra matematica, ma al cuore di Dio. Il debito del servo è anch’esso incalcolabile. Null’altro, però, ciè detto su di lui: è un servo onesto, abile, fedele…? Nulla. Solo che prostrato a terra, lo supplicava. Il gesto è di chi si appella al cuore del re. Il condono del debito, infatti, va oltre la stessa richiesta. Tanta misericordia, però, entra in un cuore egoista, che preferisce tenere il dono per sé e non ama condividerlo nella gioia della fraternità. Quel servo ha recepito solo il condono, ma non ha capito il perdono.
È stata una grazia sprecata e per lui la storia finisce. Nella relazione dell’uomo con Dio è purtroppo possibile anche il fallimento. Per questo la parabola esorta a entrare nello stile di Dio e a perdonare di cuore ciascuno al proprio fratello.

dal Giornale "A Sua Immagine"

mercoledì 10 agosto 2011

Mercoledì della XVIII settimana del Tempo Ordinario - S. Lorenzo



Se il chicco di grano muore, produce molto frutto.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà».

/

Non è la prima volta che nel Vangelo ci incontriamo con l’immagine del seme. In Matteo 13, ad esempio, c’è la parabola del seminatore e lo stesso regno di Dio è paragonato a un piccolo seme che cresce. Qui il seme è Gesù stesso e la sua vicenda è illustrativa della morte e risurrezione di Gesù. Anche l’espressione successiva sul perdere e conservare la vita parla di Gesù. Nella sua storia Egli vuole coinvolgere il discepolo, perché l’effetto della morte del seme è il frutto e allora il seme non è più solo. Ecco, allora, che Gesù detta la regola dell’apostolato: «Se uno mi vuole servire, mi segua». Noteremo senz’altro che Egli non dice affatto che chi vuole seguirlo deve servire; dice piuttosto che la vera strada del discepolato e della sequela è il servizio. Soltanto chi è capace di servire – ossia vivere la propria vita non secondo il criterio dell’egoismo e dell’autoconservazione, ma nella logica del dono di sé, come ha fatto Gesù –può dire di essere veramente sulla strada, che Gesù percorre. In questa logica si spiega anche la vicenda di San Lorenzo, il quale – come dice San Leone Magno – non eccelleva solo nel ministero dei Sacramenti, ma pure nella carità peri poveri.

dal Giornale a "Sua Immagine"

martedì 9 agosto 2011

Martedì della XIX Settimana del Tempo Ordinario - Santa TERESA BENEDETTA DELLA CROCE (EDITH STEIN)

Ecco lo sposo! Andategli incontro!

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora». Mt 25,1-13


/

Il testo evangelico per questo giorno è scelto non sulla base della lectio continua ma della festività di Santa Teresa Benedetta della Croce, vergine e martire. In riferimento alla vicenda di questa Santa, patrona d’Europa, è bene riflettere soprattutto sulle parole conclusivedel brano: «Vegliate dunque, perché non sapete né ilgiorno né l’ora». Nella prospettiva della parabola l’espressione riguarda la possibilità del ritardo dell’arrivo dello sposo. Metterlo in conto per approfittarne non è cosa saggia. Per il cristiano, non è l’imminenza, o la lontananza del ritorno glorioso del Signore che rende importante il tempo, ma l’accoglienza della sua Parola, che è già stata definitivamente pronunciata.
Vegliare è avere il cuore fisso su Cristo: «Io dormo, ma il mio cuore veglia», dice la sposa del Cantico (5,2).
Vegliare è non mancare al momento opportuno, all’ultimo momento.
«Signore, le onde sono tempestose/ e la notte è oscura,/ non la vuoi tu rischiarare/ per me che veglio sola?/ Reggi forte il timone con la mano/ e sii fiduciosa e tranquilla,/ La tua barchetta mi è cara,/ la voglio guidare alla meta. Solamente con animo fedele/ presta sempre attenzione alla bussola:/ essa aiuta a raggiungere la meta/ nelle tempeste e nella notte» (E. Stein 1940). 

dal Giornale a "Sua Immagine"

lunedì 8 agosto 2011

Lunedì della XIX Settimana del Tempo Ordinario - San Domenico


Lo uccideranno, ma risorgerà. I figli sono liberi dal tributo.
In quel tempo, mentre si trovavano insieme in Galilea, Gesù disse ai suoi discepoli: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà». Ed essi furono molto rattristati.
Quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». Rispose: «Sì».
Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». Rispose: «Dagli estranei».
E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te». Mt 17,22-27


/
«I figli sono liberi. Ma, per evitare di scandalizzarli…». Isolate da tutte le altre questioni, anche di identificazione storica, riguardo al racconto evangelico, rimangono queste due affermazioni: la prima sulla condizione di libertà di Gesù e dei suoi discepoli e, l’altra, sullo scandalo. Quanto alla prima, si tratta della libertà rispetto alla legge mosaica alle tradizioni giudaiche. Fuori della legge, senza di essa, il discepolo di Gesù è chiamato alla libertà, a una condizione filiale che lo libera dallo spirito di servitù e di paura. Sono temi paolini (cfr Gal 5,13; Rm 6, 23;8,15-16) molto noti. Anche in Giovanni 8,32 leggiamo che il discepolo, aderendo alla parola di Gesù,diventa libero. I limiti di questa libertà sono il libertinaggio (cfr Gal5,13) e la carità verso il prossimo.
In molte circostanze Gesù non ha avuto alcun problema a scandalizzare: i concittadini di Nazaret, i farisei, gli stessi suoi discepoli che ancora non comprendono la via della Croce.
Ma c’è scandalo e scandalo. Anche Paolo chiede di astenersi dal mangiare le carni sacrificate agli idoli per purtroppo non offendere la sensibilità religiosa (cfr 1Cor 10,28) e rinuncia a usare di un diritto «per non mettere ostacoli alVangelo di Cristo» (1Cor 9,12).

dal Giornale "a Sua Immagine"

domenica 7 agosto 2011

XIX Domenica del Tempo Odinario (Anno A)

Comandami di venire verso di te sulle acque.
[Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».
Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!». Mt 14,22-33

/
La mano di Dio tra le tempeste

I discepoli si sentono abbandonati nel momento del pericolo, lasciati soli a lottare contro le onde per una lunga notte. Come loro anche noi ci siamo sentiti alle volte abbandonati, e Dio era lontano, assente, era muto. Eppure un credente non può mai dire: «Io da solo, io con le mie sole forze», perché non siamo mai soli, perché intrecciato al nostro respiro c'è sempre il respiro di Dio, annodata alla nostra forza è la forza di Dio.
Infatti Dio è sul lago: è nelle braccia di chi rema, è negli occhi che cercano l'approdo. E la barca, simbolo della nostra vita fragile, intanto avanza nella notte e nel vento non perché cessa la tempesta, ma per il miracolo umile dei rematori che non si arrendono, e ciascuno sostiene il coraggio dell'altro.
Dio non agisce al posto nostro, non devia le tempeste, ma ci sostiene dentro le burrasche della vita. Non ci evita i problemi, ci dà forza dentro i problemi.
Poi Pietro vede Gesù camminare sul mare: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». Pietro domanda due cose: una giusta e una sbagliata. Chiede di andare verso il Signore. Domanda bellissima, perfetta: che io venga da te. Ma chiede di andarci camminando sulle acque, e questo non serve. Non è sul mare dei miracoli che incontrerai il Signore, ma nei gesti quotidiani; nella polvere delle strade come il buon samaritano e non nel luccichio di acque miracolose.
Come Pietro, fissare lo sguardo su Gesù che ti viene incontro quando intorno è buio, quando è tempesta, e sentire cosa ha da dire a te, solo a te: vieni! Con me tutto è possibile .
«E venne da Gesù» dice il Vangelo. Pietro guarda a lui, non ha occhi che per quel volto, ha fede in lui, e la sua fede lo rende capace di ciò che sembrava impossibile.
Poi la svolta: ma vedendo che il vento era forte, si impaurì e cominciò ad affondare. In pochi passi, dalla fede che è saldezza, alla paura che è palude dove sprofondi. Cosa è accaduto? Pietro ha cambiato la direzione del suo sguardo, la sua attenzione non va più a Gesù ma al vento, non fissa più il Volto ma la notte e le onde.
Quante volte anch'io, come Pietro, se guardo al Signore e alla sua forza posso affrontare qualsiasi tempesta; se guardo invece alle difficoltà, o ai miei limiti, mi paralizzo. Tuttavia dalla paura nasce un grido: Signore salvami!
Un grido nel buio, nel vento, nel gorgo che risucchia. E dentro il grido c'è già un abbraccio: ho poca fede, credo e dubito, ma tu aiutami!
Ed è proprio là che il Signore Gesù ci raggiunge, al centro della nostra debole fede. Ci raggiunge e non punta il dito per accusarci, ma tende la mano per afferrare la nostra, e tramutare la paura in abbraccio (commento a cura di padre Ermes Ronchi)

video commento di don Carlo Occelli

sabato 6 agosto 2011

Sabato della XVIII settimana del Tempo Ordinario - TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE


Il suo volto brillò come il sole.


In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». Mt 17,1-9

«Non videro nessuno, se non Gesù solo».

La scena della Trasfigurazione e popolata di testimoni celesti (Mosè ed Elia) e terreni (i tre discepoli). Ma la figura centrale è Gesù. Alla fine non c’è che Lui. Tutta la gloria si ritira, come una scena che si toglie per lasciare tutto lo spazio al protagonista; anche il bagliore della luce scompare, perché all’occhio umano sia possibile vedere e riconoscere.
Appare la figura di «Gesù solo», perché non si equivochi in alcun modo sulla voce venuta dalla nube.
Il Figlio amato, quello da ascoltare è Gesù. «I discepoli non sono più di fronte ad un volto trasfigurato, né ad una veste candida, né ad una nube che rivela la presenza divina. Davanti ai loro occhi, c’è Gesù solo. Gesù è solo davanti al Padre suo,mentre prega, ma, allo stesso tempo, Gesù solo è tutto ciò che è dato ai discepoli e alla Chiesa di ogni tempo: è ciò che deve bastare nel cammino. È lui l’unica voce da ascoltare, l’unico da seguire, lui che salendo verso Gerusalemme donerà la vita e un giorno trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso
(Fil 3,21)» (BENEDETTO XVI, Angelusdel 28 febbraio 2010).

dal Giornale "A Sua Immagine"

venerdì 5 agosto 2011

Venerdì della XVIII settimana del Tempo Ordinario

 Che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.
Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?
Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni.
In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno». Mt 16,24-28

/

«Rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua».
Tre verbi, l’uno in successione dell’altro, e ciascuno in conseguenza di ciò che precede.
Non sono tre azioni distinte, ma un insieme inscindibile, una specie di cascata di atti consequenziali che sfociano nella sequela di Gesù, l’identificano e le danno consistenza. Rinnegare se stessi! Cosa sarebbe, se non tenere libere le mani e allenarle perché possano afferrare la croce? Prendere la croce: non sarebbe inutile autolesionismo, se non fosse andare dietro a Gesù? Non si prende la croce per iniziativa, ma per imitazione.
Seguire Gesù non è qualcosa di esteriore, ma una scelta anzitutto d’interiorità. È alla luce e nella prospettiva di Gesù che queste tre condizioni di sequela vanno intese. Tutte e tre, insomma, fondano il discepolato cristiano, gli offrono il terreno perché possa vivere e crescere. Ciò detto, ciascuna di esse  andrebbe ulteriormente analizzata. Il rinnegarsi, infatti, acquista consistenza se diventa imitazione di Gesù, che ha vissuto la sua vicenda terrena in condizione di pro-esistenza, ossia di esistenza per gli altri.
Perdere la vita non è un incoraggiamento a disprezzarla, bensì a valorizzarla appieno mettendola in gioco per Cristo. In fondo vivere di fede è proprio questo.

dal Giornale "A Sua Immagine"